#TwLetteratura, la mia tesi e una survey per te

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https://twitter.com/MrDarcyTw/status/609629739347804161

Vi bastano loro due come endorsement per la mia tesi di dottorato? 🙂

E’ online la mia indagine volta a capire il comportamento della community di #TwLetteratura.

La trovate qui e non potete fare a meno di compilarla, è il must have dell’estate 2015!

http://sondaggi2.didattica.unimib.it/index.php/126565/lang-it

Ah non sapete cosa sia #TwLetteratura? Per il momento fidatevi di me che è una cosa bellerrima (e poi vi scrivo in un altro post perchè ho scelto di analizzare proprio questa community come caso studio) e guardatevi questo video che condensa il metodo #TwLetteratura in pochi minuti.

 

 

 

SheFactor e la community

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shefactorQualche tempo fa ho fatto una cosa che si chiama SheFactor. Ora ve lo spiego come ho cercato di spiegarlo ai miei genitori che di social non sanno nulla, non hanno internet, non usano il computer e non parlano inglese.
SheFactor è un progetto che vuole aiutare le donne a fare personal branding che, detto in soldoni, vuol dire imparare a vendersi bene (e capire come gli altri ti vedono che poi era la parte che più mi intrigava). Negli ultimi anni ho sviluppato una vera avversione per qualunque cosa specificatamente dedicata alle donne e ammantata di rosa . E se da una parte questo bollino rosa  non mi convinceva affatto, dall’altra ero sicura che questa cosa del personal branding fosse roba per freelance e non per me che insomma alla fine sono una statale no? (un impiegato statale che pensa al personal branding è roba che manco Lercio).

Però mi sbagliavo e ci sono stati due stimoli che mi hanno permesso di cambiare idea:

1-Che anche a quella gran testa della Farabegoli questa roba del rosa, della riserva femminile stesse stretta come ha scritto sul blog di progetto, ma poi lei era una degli ambassador quindi ci metteva la faccia e alla fine se lei ci mette la faccia è una garanzia (alla peggio l’avrei scalzata dal mio personale Olimpo deglii dei del social se SheFactor si fosse rivelato una boiata)

2-Che mi avesse tirato dentro Ilaria (anzi la Baibe), quell’amica che conosco da anni e con cui ho sempre pensato di volere condividere un progetto.
Perchè il bello di SheFactor (che per certi versi forse è stato anche il brutto) è che per spronarsi a vicenda e perchè il personal branding  è, sotto sotto, capire come gli altri ti vedono e lavorare per fargli vedere quello che tu vorresti vedessero (versione per il mio papà: un po’ come stare al bar a sentire cosa dicono quando credono che tu sia già uscito dalla porta) è che si lavorava in tandem. E la mia tandem è stata Ilaria. Alla fine Ilaria ha anche vinto e io le ho mandato un messaggio all’una di notte per dirglielo perchè sotto sotto siamo sempre delle ragazze di campagna e alla premiazione a Milano non ci siamo andate quindi ci siamo rese conto di tutto tipo 24 h dopo. (Confesso pubblicamente che Ilaria ha cercato di convincermi a andare ma io avevo da infornare le torte per la festa del seienne del giorno dopo e con questa affermo che di personal branding non ho evidentemente imparato un tubo)

E ora: bilancio dell’esperienza. Del miele hanno parlato in tante (ad esempio qui), io voglio aggiungere un po’ di fiele.
Mi è servito fare SheFactor? Certo! come tutte le cose che ti permettono di imparare. Alcune cose fra quelle insegnate le sapevo già e le facevo abbastanza bene, altre invece non erano mai passate per la mia testolina. Alla fine è stato un lavoro di verifica e riposizionamento della mia immagine sui social media. Vedendo cosa emerge su di me ad esempio dal mio GoogleCV ho capito che non sono carne nè pesce: scrivevo di biblioteche per ragazzi ma lavoravo in biblioteche accademiche, ora studio e lavoro nel mondo social, ma la mia reputation è ancora legata al mondo delle biblioteche. Alla fine il mio personal branding da sistemare ce l’avevo bel bello anche io. E fin qui vado nel coro del miele.
Ma ora il fiele. Una cosa su tutte non mi è piaciuta. Io credo nelle community (questo non è una novità) e nel potere del networking. SheFactor era anche una potentissima occasione per entrare in contatto con altre professioniste e, soprattutto, per confrontarmi con loro. Ma gli ambienti dove potevamo farlo, gruppo Facebook in primis erano “blindati” da una frase che più o meno suonava così: “grazie ma quello che hai scritto è in approvazione ma non sarà mai approvato perchè la nostra policy  non ci permette di pubblicare i tuoi contributi, però li leggiamo eh!”
E qui ci sono rimasta male. Perchè blindare una community tranciando le possibilità comunicative e espressive dei menbri non è mai una buona idea, considerato anche che il contesto era potenzialmente poco critico (professionisti avvezzi a usare la rete e a conoscerne dinamiche e netiquette). Capisco che si sia privilegiato il modello del lavoro a coppie (tandem) ma perchè precluderci la possibilità di fare una domanda se non mettendo un commento in coda a un post pubblicato magari non propriamente attinente al nostro quesito? A questo punto mi sarei aspettata, se la idea era quella di irregimentare una eventuale conversazione spontanea dal basso, la creazione di una pagina e non di un gruppo segreto.
Ma, soprattutto, penso che sia una occasione persa la mancanza agevole di confronto con colleghe diverse dalla tandem. Perchè in un progetto in cui ti metti in gioco ci sono anche dei momenti in cui ti senti inadatto, oppure ti sei scelto una tandem sbagliata e che latita e ti senti un po’ solo. Mi è capitato in un MOOC, quando stavo per mollare e ho trovato nella community lo sprone e lo stimolo a andare avanti perchè potevo scrivere e sentire che altri avevano i miei stessi dubbi e perplessità. E anche se il personal branding è, per definizione, personal,  pregiudicare il peer learning è quantomeno un peccato. Ho preso tanto ma avrei potuto avere di più. Che dici @fparviero alla prossima edizione lasciamo le studentesse più libere di chiacchierare tra loro? 🙂

Di me, dei miei figli, delle tecnologie che mi girano per casa

A bruciapelo, sulla porta del nido: “Non è che ci scriveresti un articolo per l’angolo del genitore per il prossimo numero del giornalino?”
Come dire di no a quello splendido asilo comunale dove la piccola non vede l’ora di entrare! E così ho scritto una cosa dove, contravvenendo a una promessa che avevo fatto a me stessa un po’ di tempo fa, uso il termine nativi digitali.

Il diritto all’oblio dei migranti

E’ successa una cosa nel mare in questi giorni. Una cosa talmente brutta che io non riesco ancora a capirne le proporzioni. Tanti morti così sono come se il paesino in cui sono cresciuta fosse distrutto tutto. Dalla prima all’ultima persona. Dal tabaccaio al postino, dal barista al pensionato che guarda i lavori, ai bambini che stanno al parco. Ah già, i bambini.

Oggi mi ha colpito vedere condividere sui social la foto di una bambina piccola (3-5 anni non saprei) annegata. Non ve la descrivo, non ve la posto. L’hanno condivisa in tanti, da quelli che condividono tutto per scaricarsi la coscienza e sentirsi impegnati, ad altri che stimo e che hanno una presenza nei social molto ragionata. E mi sono chiesta perchè lo fanno? Perchè questa bambina sì e i bimbi sfatti di chemio con cartello al collo che incitano al mi piace invece non li condividono, anzi stigmatizzano il comportamento di chi lo fa?

Io non condivido. Io non ero Charlie perchè non leggevo la rivista prima nè ho preso a farlo dopo. La mia indignazione non passa dalle foto profilo. Non commento mai notizie di attualità perchè non ho soluzioni da proporre e fare le chiacchiere da bar “Hai visto povera gente!” mi fa sentire meno che inutile. Io non so cambiare il mondo, non so dare soluzioni poltiche, etiche, morali. Il mio contributo su questa terra si limita al cercare di allevare due esseri umani eticamente responsabili e a farlo con coerenza, dignità e al massimo delle mie possibilità.

Ma allora perchè vedere questa foto mi ha dato così tanto fastidio?
Alla fine mi sono data una risposta e ho capito che è perchè sotto di essa il più delle volte c’è  il commento: “potrebbe essere mia figlia”. E io a queste parole riesco a dare il loro giusto peso.

Lei è mia figlia. E come per mia figlia rivendico il diritto all’uso consapevole della sua immagine, così credo che sia un atto dovuto anche a lei. Tutti pronti a parlare di digital shadow e invocare il diritto all’oblio digitale, ma solo per noi, quelli ricchi. Per i migranti non ci sono i diritti umani di base, figuriamoci i diritti digitali. Curioso però che il diritto all’oblio che noi invochiamo per noi stessi per loro sia condanna all’oblio, perchè non ditemi che adesso che avete condiviso questa foto avete fatto qualcosa. Ah sì certo, ne avete fatto un simbolo! No, mi spiace questo non è un simbolo, è violenza simbolica.

Mi spiace tanto piccola, non siamo delle belle persone.

20 anni di Stelline: once I was a librarian

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E alla fine dopo Nmila traversie sono riuscita ad andare al convegno delle Stelline (#stelline15) che quest’anno compiva 20 anni e si intitolava “Digital Library, la biblioteca partecipata” [per chi non è bibliotecario, è l’eventone sociale/scientifico dell’anno per i bibliotecari, specie quelli del Nord].
Mi hanno invitata Li ho implorati di invitarmi per dire delle cose sul lavoro di ricerca che sto facendo per il phd e presentare dei risultati per la prima volta in pubblico in un ambiente in cui mi sento a casa mi sembrava una furbata.
Eh sì perchè io alla fine sono una bibliotecaria. Sono quella che ha scelto di studiare biblioteconomia, lo ha fatto a Parma negli anni d’oro e poi ci ha lavorato per un po’. Poi ho cambiato idea. Anzi no. Poi mi sono guardata attorno e mi sono sentita come quando scendi dalla giostra che gira. No, non ho vomitato 😉 ma ho faticato a ritrovare l’orientamento. Dove era questo lavoro che mi hanno insegnato a fare? Boh, mi sembrava sempre più a esaurimento nei termini in cui se ne parlava in Università e, soprattutto, rispetto a quello che ti chiedevano nei concorsi. Per mia fortuna sono sempre stata una pessima catalogatrice (sembrava che fosse il core della professione) e ho studiato con dei bravi prof. (Tammaro e Salarelli sopra tutti) che mi hanno instradato bene e mi hanno fatto capire che le cose cambiano e che vivaddio siamo resilienti.

In questi giorni alle Stelline ci ho pensato tanto a questo mio percorso che mi ha portato da studente entusiasta a bibliotecaria entusiasta (e assunta a tempo indeterminato che c**o eh?- eh si, ma anche no. Sono stata brava e me lo sono guadagnata-), a community manager che alla fine a 33 anni e con una famiglia si rende conto che non ne sa abbastanza e ritorna sui banchi.

E adesso vi voglio raccontare una cosa. Quest’anno a METID abbiamo fatto l’outdoor (giornata di team building e formazione in esterni, figo il posto in cui lavoro no?) più bello di sempre. In gruppi avevamo dei giochi di legno da replicare  con la supervisione dei ragazzi de Il Tarlo. Per farla breve dopo due ore il mio gruppo aveva fatto questa cosa che vedete qui sotto e io avevo usato la sega circolare da banco (cosa di cui vado ancora adesso fierissima).

IMG_0167La morale di questo aneddoto? Dire “non ho le competenze, non lo so fare” è una maledetta scusa. Le competenze si sviluppano. Punto.
Questa cosa vale ancora di più per i bibliotecari che vogliono fare i formatori sulle loro competenze, ma mai mollare il terreno su cui sono abituati a pascolare. Non è arrogante permettersi di dire sempre come ho sentito ancora quest’anno al convegno “Gli utenti non hanno le competenze e non vogliono imparare” (a cercare nel catalogo, a capire collocazioni e regole astruse), senza chiedersi quali competenze da parte nostra servono loro?
Entrando alle Stelline per festeggiare i suoi 20 anni, per me che le frequento da 15, ho notato subito che mai come quest’anno c’era la polarizzazione (a anche una certa aria di sfiga). Bibliotecari divisi in due: quelli attaccati alla sedia, a quello che hanno sempre fatto e invece chi crede che le cose possano essere fatte diversamente. Come dice il mio amico @fraenrico in un bel post

Fatevi da parte, se non potete aiutare”

Dire bibliotecario per certi versi  oggi è come dire sarchiapone, se non definiamo cosa ci mettiamo dentro per me ora non vuole più dire niente.
Ho partecipato a una tavola rotonda dove @aubreymcfato ci ha portato a ragionare in termini di biblioteche digitali partecipative. E mi ha colpito che i bibliotecari parlassero tanto, tantissimo di loro stessi e molto di meno delle cose che fanno. Mi spiego: quando parlavano di community a parole dicevano che volevano fare una community per gli utenti, ma poi si capiva che era una community funzionale a loro. E quindi? Questo mondo bibliocentrico centrato sulle collezioni oggi, anno 2015, a 10 anni dalla mia laurea quando era già dato per agonizzante con tanto di estrema unzione impartita, ancora permane al centro del dibattito.

Ora che guardo le cose da un’ altra prospettiva praticando un mestiere che non è più quello della persona che sta in biblioteca, mi viene una tale rabbia a vedere che il mondo dove avevo scelto di esercitare la professione è fermo al palo e mi chiedo, vi chiedo #dichecazzostiamoparlando?. Quando si parla così tanto di sè per giustificare la propria esistenza beh, per me c’è un problema. Andate, fate cose e lasciate che siano esse a parlare per voi.

Ah dimenticavo! io ero andata a parlare di community building e misurazione dei risultati che era anche il motivo per cui avevo iniziato a scrivere questo post (sotto allego documentazione di prova)

 

 

 

Progettare e gestire community online

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Just a sneak peek 🙂

Convegno “Digital library: la biblioteca partecipata”, Milano 12 marzo 2015 #stelline15

Community online: progettazione sociale e tecniche di engagement (corso AIB, 4 dicembre 2014)

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Sono andata a raccontare un po’ delle belle cose che sto facendo ai miei ex colleghi bilbiotecari della Lombardia grazie agli amici dell’AIB che mi hanno invitata a tenere questo corso qui http://bit.ly/1BV7uZu.

Abbiamo giocato tanto e poi ogni tanto io dicevo anche qualcuna di queste cose qui

L’engagement é una pera

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Non so comprare le pere. Mi aggiro tra i banchi della frutta, le guardo, tasto, soppeso, annuso, qualche volta parlo anche con loro. Le conosco tutte, dalla slanciata Kaiser, alla rassicurante Abate, alla timida Coscia, alla sontuosa Decana. Eppure ogni volta che le metto con cura nel loro sacchetto e me le porto a casa loro mi tradiscono. Il giorno dopo o iniziano a imbrunirsi e macchiarsi avviandosi lentamente verso un declino di marciume senza mai raggiungere la sospirata perfezione della succosa maturità oppure rimangono ostinatamente verdi e legnose, dure e immarcescibili. Ma io mi ostino a comprarle perché le amo spassionatamente e prima o poi penetreró il loro segreto.
Per me l’engagament è una pera. Ci rifletto da anni e ancora non lo capisco. Eppure lo amo. So che esiste un mega concetto aristotelico-fuffologico di Engagement con la maiuscola, ma io quando parlo di engagement nelle community online inizio a smettere di pensare a questa pera qui

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e inizio a vedermelo così

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Ma ancora non mi basta. Perché capisco che ogni pera ha il suo uso, “la morte sua”. E mi viene da pensare che non posso fare una torta come questa

con una Kaiser, ma mi ci vuole una timida e delicata Coscia.
Alla fine per capire una pera/engagement oltre a assaggiarla in purezza la devo cucinare. E prepararmi, che ne so, una bellissima torta/community. Ma la sua buona riuscita non é solo questione di qualitá della pera. Dipende dalla farina, dal forno, dall’amore con cui si prepara (io a questa roba ci credo davvero eh!).Per capire l’engagement non solo devo scegliere la pera giusta, ma la devo cucinare, trasformare, dosare gli ingredienti, variare i sapori, creare una ricetta. E siccome il bello della cucina (come nei social) è condividere io voglio fartela assaggiare. Non ti basta vederla per replicarla, tante cose ti dirà la vista della mia torta sul fatto che è riuscita bene o meno, si inizia a mangiare con gli occhi però poi si apre la bocca. E si mangia coi sensi. E così è la mia torta community. L’engagement è solo una pera che ha una parte importante nella ricetta ma non è sufficiente. La community è una ricetta, ha i suoi ingredienti, le sue proprorzioni, la puoi osservare, ma meglio ancora assaggiare, vivere. E poi, se vuoi, puoi replicarla. C’è una ricetta, ma non sempre viene bene. E’ questione di materia prima, ma c’è anche altro.
Io, per dire, non so scegliere nemmeno la materia prima 🙂