Just a sneak peek 🙂
Convegno “Digital library: la biblioteca partecipata”, Milano 12 marzo 2015 #stelline15
12 Thursday Mar 2015
Posted community, engagement, online community, phd, social media, speech
inJust a sneak peek 🙂
Convegno “Digital library: la biblioteca partecipata”, Milano 12 marzo 2015 #stelline15
15 Tuesday Jul 2014
Posted community, engagement, phd, social media
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Circa un anno fa di questi tempi mi sono messa a fare una serie di interviste con dei personaggi rilevanti del mondo social italiano.
L’obiettivo delle interviste era di indagare l’engagement, il tema cui voglio dedicare la mia tesi di dottorato.
Questa la traccia di intervista a cui ho sottoposto le mie 8 pazientissime “cavie” (che non finirò mai di ringraziare).
A distanza di un anno rifarei le interviste con un po’ più di consapevolezza e cambierei alcune formulazioni, nonchè cercherei di essere meno impacciata (ma sì, in alcuni casi ero anche emozionata)
1.   Engagement, ne parliamo come di un termine tecnico, ma cosa significa per te?
2.   Differenze tra engagement e online participation
3.   Community online: quando definisci che hanno successo?
4.   L’engagement della comunità è misurabile? È stimolabile oppure o c’è o non c’è?
E adesso inizio una serie di post in cui vi racconto cosa mi hanno detto 🙂
p.s. per sapere perchè ci ho messo un anno tra le interviste e questa serie di post vedi qui
16 Tuesday Oct 2012
Posted community management, e-collaboration, social media, Tips and tricks
inMe lo chiedo sempre più spesso di fronte a tante pagine: ma perché aprire una pagina su Facebook se neanche voi avete ben chiaro cosa ci volete fare?
Se i social media non te li ordina il dottore allora perché partire con il piede sbagliato? Se non sai neanche tu che obiettivo ti dai e che risorse hai perché farlo?
Volevo proporvi la mia analisi di un caso che mi sta molto a cuore: la pagina Facebook dell’Associazione Italiana Biblioteche (AIB). Per chi non lo sapesse le biblioteche sono state la mia prima attività professionale e il campo in cui ho condotto i miei studi sino a un annetto fa, anche l’analisi del mio network Facebook fatta con Gephi per il corso di Social network analysis rivela che il core della mia rete ruota attorno alle biblioteche. A marzo, durante un intervento, ho sostenuto la necessità di aprire una pagina Facebook dei bibliotecari italiani come luogo di condivisione, scambio e collaborazione per la crescita della professione e la presa di coscienza della sua specificità anche tra gli operatori stessi. Questa pagina ora c’è (ovviamente non perché l’ho chiesta io). Ma non ne sono per niente soddisfatta.
Premesso che il presidente dell’AIB è un amico e una persona che stimo, così come le persone che ruotano attorno alle presenze social dell’AIB (e che tali spero rimangano anche dopo questo post), affermo che:
la pagina Facebook dell’AIB è una cattiva pratica da non imitare
E adesso vi dico perchè IMHO (e tralascio l’account Twitter).
Non emerge assolutamente un’idea chiara di che storia si voglia raccontare, come mi ha detto una brava community manager, non si sente l’anima. Non si può popolare la pagina solo con automatismi di pubblicazione, la stragrande maggioranza dei post riporta la dicitura “tramite Twitterfeed”. Questo significa che la pagina viene riempita automaticamente pescando dei feed da un’altra risorsa. Orbene, perché dovrei mettere il mi piace se posso sottoscrivere un feed rss che mi dà le stesse informazioni?
Seconda cosa (un po’ più fine) pubblicare con automatismi diminuisce l’engagement (altrimenti hootsuite sostituirebbe i community manager) e non ti permette di gestire il migliore momento di pubblicazione. Data la velocità dello streaming informativo su Facebook se vuoi fare arrivare la notizia è fondamentale darla nel momento giusto.
Responso: Bocciati in content curation
Chi si occupa di social sa che l’avere dei fan vivi e attivi (quello che va sotto il cappello di engagement) è lo scopo primario di una pagina. Facebook non è la tua vetrina (non lo era neanche il sito, figurati un social!) ma un posto dove si conversa e il valore è nel dialogo.
La pagina AIB parte con un vantaggio fortissimo, l’avere una comunità professionale di riferimento ben definita che nei confronti della propria associazione professionale ha un vissuto positivo ed è disposta a mettere mi piace “sulla fiducia”. Il problema non è quindi far mettere mi piace, i numeri dello screenshot qui sotto, dopo meno di un mese dall’apertura dimostrano che la pagina ha una fanbase discreta e che il buzz c’è stato, ma la conversazione è morta. Perchè?(ah, per inciso l’effetto novità ormai è bruciato e quindi il buzz spontaneo che non è stato sfruttato difficilmente sarà riproducibile)
Sicuramente i contenuti non stimolano la conversazione,  non viene voglia di parlare perché non si sente “calore umano” dentro. Cavolate? Non credo. Questi accorgimenti fanno la differenza tra pagine che funzionano e generano conversazioni e pagine che si accaparrano dei mi piace.
All’utente si risponde SEMPRE. Basta un mi piace a una persona che ha speso del tempo a fare un commento per far sentire che si è stati considerati, se scrivo qualcosa e non ho cenno dai gestori la prossima volta vado a scrivere da altre parti.
Errore marchiano: mancano le immagini nella maggioranza dei post. Sono la base su cui si costruisce l’engagement (ma su questo torneremo dopo). Ah l’immagine dello screenshot qui sopra è tagliata, non tutte le dimensioni di immagine vanno bene per Facebook (ma questa è una piccolezza tutto sommato)
Responso: bocciati in engagement
La nuova impostazione di Facebook, il diario, è stato un passo importante perché lo ha caratterizzato nettamente sul versante storytelling. Si può usare questa modalità per raccontare la storia della propria istituzione attraverso le tappe salienti e su questo mi sembra che come concetto ci siamo. Non emerge però la storia di questa pagina: cosa vuole essere? Uno spazio per discutere tra bibliotecari? Un modo per farsi conoscere dai non utenti? Con quali strategie? Insomma: che cosa vogliamo comunicare? Questo è l’aspetto che maggiormente manca e che la rende una pagina “morta”.
Mancano poi le immagini. Un esempio lampante. Pochissimi giorni fa si è svolto il primo Bibliopride italiano, la giornata dell’orgoglio bibliotecario che ha avuto copertura mediatica abbastanza diffusa. Benissimo, nella pagina Facebook dell’AIB non c’è una mezza foto dell’evento (o meglio degli eventi). Inoltre nei giorni precedenti la pagina, invece di creare l’attesa non ha fatto altro che pubblicare contenuti automatici. Decisamente un errore. Che ormai non si rimedia. La copertura sui social di questo evento era fondamentale: non c’è stata. Attenzione: l’evento ha avuto buona copertura su Twitter #bibliopride.
Facebook fa storytelling per immagini. Mi piacerebbe che la storia delle biblioteche non fosse quello che ti insegnano all’università (roba così per intenderci) ma la storia di chi fa questo mestiere, vorrei vedere i dietro le quinte perchè, cit. Gentilini, “le biblioteche sono sì piene di libri, ma è solo un caso”.
Responso: bocciati in storytelling (e questo a dei bibliotecari brucia)
Questi erano i miei 2 cent alla questione. Nessuno nasce imparato, forza che c’è tempo per correggere il tiro. Per il momento quello che mi sento di dire è: bibliotecari cari se cercate un modello di pagina FB da far diventare standard de facto guardate altrove (ad esempio qui)
Un ultimo screenshot con alcune considerazioni finali sul perché ci sia bisogno di un modello. Guardate la conversazione che segue e giocate a individuare gli errori. Quali sono in termini di community management (e di regole di Facebook più in generale?)
11 Monday Jun 2012
Posted phd, social media
inLunedì tempo di bilanci sulla settimana appena trascorsa. Tra le cose belle sicuramente la conferenza di Jenkins in questi giorni in tour italiano.
Ha parlato anche all’Università di Milano Bicocca con uno speech dal titolo How Content Gains Meaning and Value in the Era of Spreadable Media
Ecco cosa ho imparato:
Se pensiamo al content rimanda all’idea di qualcosa che è contenuto, adesso per il concetto di spreadable media non si può più pensare al contenuto in quest’accezione, breaking up the boundaries.
L’importante, si chiede Jenkins è il content o il design? La risposta è semplice: use.
Il lavoro da fare non è tanto sulla tecnologia, ma sulla cultura e l’uso che le persone fanno dei media, sulle cultural logics con cui le persone rispondono ai media.
Ecco allora che la sua narrazione ruota attorno queste 4 parole chiave:
1-TRANSMEDIA: vuole dire, in senso lato, across media, ovvero che relazione esiste tra piattaforme? generalmente legato al termine storytelling in realtà si situa più correttamente nell’ambito della user experience. Impressiona questo video che non conoscevo, un ipotetico TED2023 girato da Ridley Scott.
Il focus si sposta dallo storytelling come promozione del brand allo storytelling come modello creativo di creazione di storie. Ma le storie nei transmedia continuano e si contaminano e “transmedia storytelling is a process where integral elements of a fiction get dispersed sistematically across multiple delivery channels for the purpose of creating a unified and cooordinated entertainment experience”. Un esempio? Glee , con il riuso amatoriale delle canzoni.
Fonte immagine: http://bit.ly/Nsqa9O
2-CONTENT IS PARTICIPATORY: non pensiamo solo a esempi famosi come wikipedia ma anche a tutto il mondo delle fan fiction. Mi ha molto colpito un caso citato da Jenkins su una scuola dell’Indiana, all’interno della quale Wikipedia è bandita, ma i docenti la portano ugualmente in classe adottando una voce e discutendo sul miglioramento da apportarvi (e questo mi ricorda il recente caso degli studenti di Mirandola)
Tra gli aspetti più interessanti della participatory culture sicuramente le basse barriere di accesso e la facilità di engagement, “every reader is a potential writer”, “members believe their contributions matter” e si realizza una “informal mentorship”, modello molto interessante soprattutto per la didattica. Difatti, rileva Jenkins quanto sia profonda la contraddizione di coloro che mettono i computer nelle scuole e li disconnettono da ogni forma di cultura partecipativa in nome della sicurezza dei minori.
3-CONTENT IS REMIXABLE: su questo punto tra i più noti del pensiero di Jenkins e non solo basti pensare alle implicazioni sul copyright e sul nuovo concetto di proprietà intellettuale.
4-CONTENT IS SPREADABLE: in questo senso spreadable non è sovrapponibile al concetto di stickiness che implica un uso del mezzo maggiormente passivo. “Spreading media preserve culture” “if it does not spread is dead”. Con l’avvertenza che la circolazione e la distribuzione(spreading) sono due concetti e filosofie differenti, lo spreading impatta sulla viralità e rende le persone degli amplificatori, degli hub.
Fonte immagine: http://bit.ly/LhKdmv
Appunti a margine:
Credits delle immagini @fabioserenelli
04 Monday Jun 2012
Posted social media
inQualche giorno fa ho scritto alcune mail “sofferte”, avete presente quelle che si soppesano a lungo, parola per parola perchè stai proponendoti, chiedendo qualcosa di importante? Sono rimasta abbastanza seccata quando, a fronte di tanto impegno, non ho ricevuto risposta.
Allora sono sbottata sul mio profilo Facebook con questa frase:
da quando rispondere alle mail è diventato opzionale?
Niente di originale ma evidentemente ho toccato un nervo scoperto, se è vero che ci sono stati ben 14 commenti in poco tempo e alcuni anche molto belli.
Il malcostume di non rispondere alla mail come se fosse qualcosa di opzionale è tipicamente italiano, negli Stati Uniti chiunque, se non lo può fare personalmente e non ha uno staff che lo faccia per lui, ti fa arrivare almeno un feedback automatico che ti dice qualcosa del tipo “grazie di avermi contattato ma ricevo più di 500 mail al giorno e non riesco a rispondere a tutti, niente di personale”.
Credetemi, lo capisco. Capisco e ho apprezzato particolarmente una persona che stimo molto e che sul mio profilo ha scritto una cosa così:
a me ogni tanto capita di non rispondere ad una mail. Magari nel momento in cui mi è arrivata ero preso e concentrato su altro. La marco come “da rispondere”, ma nel frattempo ne arrivano decine altre. Passano i giorni, le mail si accumulano.[…]Poi ne passano così tanti che mi imbarazza pure rispondere, nonostante il “mi scuso per il ritardo con cui rispondo”, e lascio perdere, pensando: “magari mi riscrive per sollecitare una risposta, e allora rispondo”.Ma non credevo che questo potesse scatenare questa reazione e percezione in chi invia la mail […] Ora che so, ci starò più attento.Certo che è dura però, eh. O uno lavora, o uno risponde alle mail[…]. Alcune mail ad esempio che lascio inevase, mio malgrado, sono richieste di consulenze e chiarimenti gratuiti che ottengo grazie agli articoli nel blog, etc.[…].Insomma, ok, è brutto non ricevere risposta ed è anche maleducato. Però provate anche a mettervi nei panni di chi dovrebbe rispondere.
Questo contributo centra un tema importante: è davvero sempre maleducato non rispondere o qualche volta è anche lecito?
Io la penso così: un feedback va sempre dato, magari perché quello che vi ha scritto è imbranato e non sa confezionare una mail decente e magari è uno che se non gli rispondete si sente un demente digitale e rimane scornato per sempre, ma magari è uno che “ce prova”  e vuole scroccarvi una consulenza gratuita.
Magari uno che vi scrive (caso reale) “Scusa devo aprire la pagina Facebook della biblioteca, c’è qualcosa che dovrei sapere?” Mah, quanto meno a cosa ti serve, che linea editoriale vuoi tenere e mille tips and tricks. Suo tempo e sbattimento per scrivere la mail: zero, tuo tempo per rispondergli seriamente almeno cento volte tanto.
Il web funziona con un do ut des, se vuoi scroccare allora non giochi secondo le regole. Che si fa? Lo si schifa? Io penso che anche questa persona meriti una risposta, magari solo per fargli capire che così non si fa. Allora come comportarsi? Penso che ognuna di quelle persone a “alto tasso di mail” dovrebbe dotarsi di un disclaimer che rimandi a una pagina in cui esplicita la propria presenza sui social e la propria policy di risposta alle mail.
Una ricerca Google con la stinga “email response policy” (carina questa) vi chiarirà di costa sto parlando.
Un capitolo a parte meritano poi i professori: quelli che ti insegnano il digitale ma la mail non la guardano perché sai non abbiamo tempo (ma magari li vedi su Facebook e se li contatti lì ti rispondo pure, per la serie non abbiamo capito nulla dei rapporti con gli studenti ai tempi della rete). Qui siamo nel vero e totale malcostume italiano. Ricordo di avere letto tanti anni fa (probabilmente era su Being digital ) la storia di un ragazzino che, agli albori delle mail, scriveva a tanti guru del digitale statunitensi ottenendo sempre risposta e suscitando lo stupore del padre. Ok, oggi le mail sono centuplicate, ma provate a scrivere a un prof oltreoceano e vedrete che tipo di feedback otterrete (e con che tempi).  Non fa figo dire “non ho tempo per le email” perché fa parte del vostro tempo di lavoro che è un lavoro di ricerca ma a contatto con gli studenti (che non sono solo una seccatura ma una gran risorsa), a discolpa della categoria devo dire che molte mail sono del tipo “ciao prof, quando posso fare l’esame?” (e qui vale il caso di quello che “ce prova” sopra)
UPDATE: come sono finite le mie mail. A una ho ricevuto risposta (credo perché tramite giro di amicizie condivise hanno visto la mia sparata sui social-cosi), gentilissimi e io super contenta. Gli altri invece nulla (ma non siete 2.0, sharing is caring etc?) Riscrivo? No per me una mail non si scrive due volte sollecitando la risposta alla prima. L’hai vista non mi hai risposto, ok ne prendo atto. E io mi rivolgo al tuo competitor 🙂
29 Thursday Mar 2012
Posted community management, community of practice, social media
inMentre facevo il mio surfing di aggiornamento professionale mi sono imbattuta in due articoli che, pur se diversi per tono e argomento, vorrei commentare e riassumere qui sotto.
Il primo è uno di quegli articoli che si trovano nei blog un po’ business oriented e che  riassume indicazioni pratiche e di buonsenso che fa piacere trovarsi scritte sul content management, il secondo arriva dal mio ultimo blog rivelazione e parla di social media strategy con un italiano piacevole e uno sforzo teorico maggiore.
Il content management riprende un po’ le vecchie regole del giornalismo classico che sembrano essersi perse nel web. La facilità di pubblicazione fa uscire dal calderone ogni tipo di prodotto a prescindere da ogni cura e strategia editoriale (e io ne sono la prova provata). Ecco allora che con 5 consigli per il content management cerchiamo di mettere qualche punto fermo.
Come vedete si tratta solo di buonsenso e di fermarsi a riflettere un po’ di più prima di avventarsi sulla tastiera o scrivere un progetto e dire: massì e poi c’è la ppparte ssocial bla bla
Tirando le somme: keep calm and reflect! Individua tuoi obiettivi, i contenuti che possano interessare il tuo pubblico, lo stile con cui comunicarlo. E ricorda: la concorrenza ormai è fortissima
Anche il secondo articolo si snoda lungo 5 precetti fondamentali per la costruzione di una social media strategy :