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Social media curious

Category Archives: online community

#TwLetteratura, la mia tesi e una survey per te

15 Monday Jun 2015

Posted by Valeria Baudo in community, community management, online community, phd

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survey, twletteratura

Non sia mai che un gentiluomo neghi qualcosa a una madamigella. Fatelo anche voi con la ricerca di @valeriabaudo: http://t.co/2Uv2VNhsLK

— Fitzwilliam Darcy (@MrDarcyTw) June 13, 2015

Nothing is more polite than help a friend: so, I kindly recommend you to answer to @valeriabaudo's survey: http://t.co/kDHuiJiBFY

— Jane Austen (@JaneAustenTw) June 13, 2015

Vi bastano loro due come endorsement per la mia tesi di dottorato? 🙂

E’ online la mia indagine volta a capire il comportamento della community di #TwLetteratura.

La trovate qui e non potete fare a meno di compilarla, è il must have dell’estate 2015!

http://sondaggi2.didattica.unimib.it/index.php/126565/lang-it

Ah non sapete cosa sia #TwLetteratura? Per il momento fidatevi di me che è una cosa bellerrima (e poi vi scrivo in un altro post perchè ho scelto di analizzare proprio questa community come caso studio) e guardatevi questo video che condensa il metodo #TwLetteratura in pochi minuti.

 

 

 

Community e libri: ci vediamo al Salone del Libro

11 Monday May 2015

Posted by Valeria Baudo in community, e-collaboration, online community, speech

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salone del libro, torino, twletteratura

Sembra che me ne vada un po’ in giro a parlare di community e biblioteche con gli amici di #twletteratura. Chi viene?

torino

20 anni di Stelline: once I was a librarian

15 Sunday Mar 2015

Posted by Valeria Baudo in community, online community, phd, speech

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bibliotecari, Biblioteche, stelline15

E alla fine dopo Nmila traversie sono riuscita ad andare al convegno delle Stelline (#stelline15) che quest’anno compiva 20 anni e si intitolava “Digital Library, la biblioteca partecipata” [per chi non è bibliotecario, è l’eventone sociale/scientifico dell’anno per i bibliotecari, specie quelli del Nord].
Mi hanno invitata Li ho implorati di invitarmi per dire delle cose sul lavoro di ricerca che sto facendo per il phd e presentare dei risultati per la prima volta in pubblico in un ambiente in cui mi sento a casa mi sembrava una furbata.
Eh sì perchè io alla fine sono una bibliotecaria. Sono quella che ha scelto di studiare biblioteconomia, lo ha fatto a Parma negli anni d’oro e poi ci ha lavorato per un po’. Poi ho cambiato idea. Anzi no. Poi mi sono guardata attorno e mi sono sentita come quando scendi dalla giostra che gira. No, non ho vomitato 😉 ma ho faticato a ritrovare l’orientamento. Dove era questo lavoro che mi hanno insegnato a fare? Boh, mi sembrava sempre più a esaurimento nei termini in cui se ne parlava in Università e, soprattutto, rispetto a quello che ti chiedevano nei concorsi. Per mia fortuna sono sempre stata una pessima catalogatrice (sembrava che fosse il core della professione) e ho studiato con dei bravi prof. (Tammaro e Salarelli sopra tutti) che mi hanno instradato bene e mi hanno fatto capire che le cose cambiano e che vivaddio siamo resilienti.

In questi giorni alle Stelline ci ho pensato tanto a questo mio percorso che mi ha portato da studente entusiasta a bibliotecaria entusiasta (e assunta a tempo indeterminato che c**o eh?- eh si, ma anche no. Sono stata brava e me lo sono guadagnata-), a community manager che alla fine a 33 anni e con una famiglia si rende conto che non ne sa abbastanza e ritorna sui banchi.

E adesso vi voglio raccontare una cosa. Quest’anno a METID abbiamo fatto l’outdoor (giornata di team building e formazione in esterni, figo il posto in cui lavoro no?) più bello di sempre. In gruppi avevamo dei giochi di legno da replicare  con la supervisione dei ragazzi de Il Tarlo. Per farla breve dopo due ore il mio gruppo aveva fatto questa cosa che vedete qui sotto e io avevo usato la sega circolare da banco (cosa di cui vado ancora adesso fierissima).

IMG_0167La morale di questo aneddoto? Dire “non ho le competenze, non lo so fare” è una maledetta scusa. Le competenze si sviluppano. Punto.
Questa cosa vale ancora di più per i bibliotecari che vogliono fare i formatori sulle loro competenze, ma mai mollare il terreno su cui sono abituati a pascolare. Non è arrogante permettersi di dire sempre come ho sentito ancora quest’anno al convegno “Gli utenti non hanno le competenze e non vogliono imparare” (a cercare nel catalogo, a capire collocazioni e regole astruse), senza chiedersi quali competenze da parte nostra servono loro?
Entrando alle Stelline per festeggiare i suoi 20 anni, per me che le frequento da 15, ho notato subito che mai come quest’anno c’era la polarizzazione (a anche una certa aria di sfiga). Bibliotecari divisi in due: quelli attaccati alla sedia, a quello che hanno sempre fatto e invece chi crede che le cose possano essere fatte diversamente. Come dice il mio amico @fraenrico in un bel post

Fatevi da parte, se non potete aiutare”

Dire bibliotecario per certi versi  oggi è come dire sarchiapone, se non definiamo cosa ci mettiamo dentro per me ora non vuole più dire niente.
Ho partecipato a una tavola rotonda dove @aubreymcfato ci ha portato a ragionare in termini di biblioteche digitali partecipative. E mi ha colpito che i bibliotecari parlassero tanto, tantissimo di loro stessi e molto di meno delle cose che fanno. Mi spiego: quando parlavano di community a parole dicevano che volevano fare una community per gli utenti, ma poi si capiva che era una community funzionale a loro. E quindi? Questo mondo bibliocentrico centrato sulle collezioni oggi, anno 2015, a 10 anni dalla mia laurea quando era già dato per agonizzante con tanto di estrema unzione impartita, ancora permane al centro del dibattito.

Ora che guardo le cose da un’ altra prospettiva praticando un mestiere che non è più quello della persona che sta in biblioteca, mi viene una tale rabbia a vedere che il mondo dove avevo scelto di esercitare la professione è fermo al palo e mi chiedo, vi chiedo #dichecazzostiamoparlando?. Quando si parla così tanto di sè per giustificare la propria esistenza beh, per me c’è un problema. Andate, fate cose e lasciate che siano esse a parlare per voi.

Ah dimenticavo! io ero andata a parlare di community building e misurazione dei risultati che era anche il motivo per cui avevo iniziato a scrivere questo post (sotto allego documentazione di prova)

 

 

 

Progettare e gestire community online

12 Thursday Mar 2015

Posted by Valeria Baudo in community, engagement, online community, phd, social media, speech

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progettazione sociale, Stelline 2015

Just a sneak peek 🙂

Convegno “Digital library: la biblioteca partecipata”, Milano 12 marzo 2015 #stelline15

Cose belle e scritte bene sulle community

26 Monday Jan 2015

Posted by Valeria Baudo in community, community management, online community

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Che Michele d’Alena le scrive bene e io me le appunto anche qui così non me le dimentico. E si cita anche un pezzo meraviglioso di @aubreymcfato sulla costruzione delle community

L’engagement é una pera

15 Monday Dec 2014

Posted by Valeria Baudo in engagement, online community, phd

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Non so comprare le pere. Mi aggiro tra i banchi della frutta, le guardo, tasto, soppeso, annuso, qualche volta parlo anche con loro. Le conosco tutte, dalla slanciata Kaiser, alla rassicurante Abate, alla timida Coscia, alla sontuosa Decana. Eppure ogni volta che le metto con cura nel loro sacchetto e me le porto a casa loro mi tradiscono. Il giorno dopo o iniziano a imbrunirsi e macchiarsi avviandosi lentamente verso un declino di marciume senza mai raggiungere la sospirata perfezione della succosa maturità oppure rimangono ostinatamente verdi e legnose, dure e immarcescibili. Ma io mi ostino a comprarle perché le amo spassionatamente e prima o poi penetreró il loro segreto.
Per me l’engagament è una pera. Ci rifletto da anni e ancora non lo capisco. Eppure lo amo. So che esiste un mega concetto aristotelico-fuffologico di Engagement con la maiuscola, ma io quando parlo di engagement nelle community online inizio a smettere di pensare a questa pera qui

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e inizio a vedermelo così

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Ma ancora non mi basta. Perché capisco che ogni pera ha il suo uso, “la morte sua”. E mi viene da pensare che non posso fare una torta come questa

http://foodontap.com/article/spicy-pear-love-cake/

http://foodontap.com/article/spicy-pear-love-cake/

con una Kaiser, ma mi ci vuole una timida e delicata Coscia.
Alla fine per capire una pera/engagement oltre a assaggiarla in purezza la devo cucinare. E prepararmi, che ne so, una bellissima torta/community. Ma la sua buona riuscita non é solo questione di qualitá della pera. Dipende dalla farina, dal forno, dall’amore con cui si prepara (io a questa roba ci credo davvero eh!).Per capire l’engagement non solo devo scegliere la pera giusta, ma la devo cucinare, trasformare, dosare gli ingredienti, variare i sapori, creare una ricetta. E siccome il bello della cucina (come nei social) è condividere io voglio fartela assaggiare. Non ti basta vederla per replicarla, tante cose ti dirà la vista della mia torta sul fatto che è riuscita bene o meno, si inizia a mangiare con gli occhi però poi si apre la bocca. E si mangia coi sensi. E così è la mia torta community. L’engagement è solo una pera che ha una parte importante nella ricetta ma non è sufficiente. La community è una ricetta, ha i suoi ingredienti, le sue proprorzioni, la puoi osservare, ma meglio ancora assaggiare, vivere. E poi, se vuoi, puoi replicarla. C’è una ricetta, ma non sempre viene bene. E’ questione di materia prima, ma c’è anche altro.
Io, per dire, non so scegliere nemmeno la materia prima 🙂

[Letture] Perché la rete ci rende intelligenti / Howard Rheingold

14 Friday Feb 2014

Posted by Valeria Baudo in online community, phd

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howard rheingold, letture

Rheingold è un nome che dice sicuramente qualcosa a chi si occupa di community, se non altro perché é lui che ha inventato il termine “comunità virtuali”. Pubblica per Cortina il suo ultimo saggio dal titolo “Perchè la rete ci rende intelligenti” (Perché la rete ci rende intelligenti / Howard Rheingold ; edizione italiana a cura di Stefania Garassini, Milano : Raffaello Cortina, 2013, 416 p. 28€) il cui titolo rimanda al testo di Carr “Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello”. La critica che Rheingold muove a Carr e, più in generale, a tutti gli esponenti del determinismo tecnologico riguarda lo sminuire il fattore umano perchè, di fatto, le tecnologie sono centrate sull’uomo. In questo senso ci invita alla pratica dell’infotention, il neologismo che crea per descrivere il legame mente-macchina e il complesso di competenze mentali sull’attenzione e i filtri tecnologici sull’informazione. Possiamo pensare al testo di Rheingold come a un manuale di educazione alla cybercultura e di “come si possono usare i social media in modo intelligente, umano e soprattutto consapevole. Questo libro parla di ciò che ho imparato”


Rheingold sistematizza il proprio pensiero attorno a 5 nuclei principali che chiama i 5 alfabeti da apprendere per essere netizens:

  1. attenzione
  2. partecipazione (introducendo il concetto di architettura della partecipazione)
  3. collaborazione (in termini sociologici parleremmo di azione collettiva)
  4. consumo critico dell’informazione (crap detection)
  5. intelligenza a misura di rete (network smart)

Attenzione: il multitasking è un’illusione, non è un lavorare in parallelo a tanti task ma un passaggio rapido da un’attività all’altra con conseguenze sulla produttività e sullo stress. L’attenzione va allenata, cominciando dal lavorare sul respiro (e verificate se mentre controllate l’email tendete a trattenerlo con un’emulazione del meccanismo biologico del fight or flight- combatti o fuggi). Se la competizione per l’attenzione è altissima in un contesto caratterizzato da informazione abbondante e di qualità non garantita perchè scarseggiano i fact-checkers, allora diventa fondamentale entrare nella catena alimentare informativa, risalirla per catturare l’attenzione e farsi notare (guardate in quest’ottica meno marchettara anche il personal branding)

Partecipazione: se il contesto è questo, allora come si può dominarlo? ognuno di noi come individuo (e la società nel suo complesso) ha il dovere di porsi in maniera critica davanti al flusso informativo per decidere a cosa dedicare energie e cosa portare all’attenzione delle altre persone (insomma la prossima volta prima del tasto condividi pensate se non state contribuendo a diffondere l’ennesima bufala)

Collaborazione: ripensando alle community come svincolate dai luoghi in cui vivono le persone e legandole al concetto puro di community come legame tra le persone, Rheingold sviluppa il tema della collaborazione. La possibilità estrema della personalizzazione e la connettività ubiqua (chissà cosa ne pensa del wearable?) danno luogo all’individualismo interconnesso che è la base su cui si fonda questa comunità dove i legami forti sono tra persone e non tra luoghi. Il concetto di capitale sociale è centrale, ma cambia significato e forme configurandosi come un nuovo capitale sociale online che diventa il valore del pay forward, legando la propria riflessione alla teoria dei beni comuni di Ostrom. Le comunità virtuali, come i contratti e le costituzioni sono tecnologie di cooperazione e diventare netizens, ovvero cittadini consapevoli del digitale, ha a che fare non solo con il miglioramento individuale ma con una questione sociale più ampia legata al miglioramento della società.

Crap detection: Rheingold descrive in dettaglio come trovare e distinguere le fonti informative che non sono solo testi ma, soprattutto, persone che vanno a costituire il personal learning network (PLN) in cui le persone rivestono il ruolo di tutor del pensiero critico. La ricetta per la PLN in 8 punti è: 1-esplora 2-cerca 3-segui 4-metti a punto 5-alimenta 6-coinvolgi 7-interessati 8-rispondi, insomma la base della vita sui social e online no?

Network smart: tutto questo ci permette di sviluppare una nuova competenza ovvero un’intelligenza a misura di rete

Ma Rheingold è un grande studioso di dinamiche delle community e a esse dedica nel saggio alcune riflessioni che sintetizzo qui di seguito (a uso e consumo di chi si occupa di community management et similia):

  • le comunità virtuali sono strumenti di cooperazione per risolvere i dilemmi sociali
  • le community sono passate dall’essere comunità basate sul vicinato a comunità basate sulle reti sociali nelle quali il ruolo e la posizione del singolo sono fondamentali. In termini di connessioni ancora più importante del numero grezzo  (una vanity metric) è la posizione, il fare da ponte (in termini SNA eigenvector centrality)
  • secondo Wellman la community è una rete di legami interpersonali finalizzati alla convivialità, al supporto reciproco, all’informazione, al rafforzamento di un’identità sociale e di un senso di appartenenza
  • una rete è diversa da una community perchè nella prima i membri possono comunicare online anche senza stabilire relazioni interpersonali
  • gestire una comunità virtuale è come dare una festa, non basta affittare il locale e comprare cibo e birra, bisogna invitare un insieme di persone interessanti, facilitare le conversazioni e prevenire i dissidi
  • nelle community il concetto di capitale sociale online è fondamentale, perchè rappresenta gli accordi e le reti di comunicazione che consentono alle persone di fare delle cose insieme in modo informale

Citazione del cuore:(Rheingold sugli smartphone)

Sapere di avere in tasca un oggetto che è al tempo stesso torchio a stampa, stazione radio, sala di comunità, mercato, scuola, biblioteca -e sapere come usarlo a proprio beneficio- è ciò che fa la differenza tra un semplice consumatore di gadget elettronici e un cittadino autonomo e responsabile

Keywords: infotention, playbor, mundfulness, capitale sociale online, personal learning network (pln), cybercultura, architettura della partecipazione, individualismo interconnesso

Letture, spunti e autori da approfondire [memo to me]:

  • [spunti] concetto di legami assenti di Granovetter
  • [spunti] creare curva dell’impegno per catalogare i comportamenti degli utenti di una community
  • [spunti] le fasi di creazione di una PLN possono essere applicate anche al setup di una community?
  • [autori] Ostrom (sui beni comuni)
  • [autori] Naomi Baron (sul multitasking)
  • [autori] Linda Stone (sull’attenzione)
  • [letture] The strenght of internet ties (sul capitale sociale online)
  • [letture] Networked: The New Social Operating System / L.Rainie, B: Wellman
  • [letture] Telling experts from spammers expertise ranking in folksonomies (sulle folksonomy)

Del perchè la maternità non è una malattia (ma neanche una passeggiata di salute)

31 Friday Jan 2014

Posted by Valeria Baudo in online community, phd

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Presenza incostante la mia sul blog e adesso, rovesciando in questo blog un po’ di fatti miei personali, vi spiego perchè. Sono diventata mamma (per la seconda volta). Bellissimo, brava ma siccome oggi la pupa ha solo un mese che hai fatto prima? Ho preso una pausa. E mi è piaciuto. E non mi sento in colpa per essermi fermata.
Dove leggi leggi ti dicono che la maternità non è una malattia, eccerto sono d’accordissimo. Ma non è nemmeno un momento normale della vita. Non ho voluto fare quella che “io fino al giorno prima tiravo giù le tende salendo e scendendo dalla scala”, nè quella che “ho lavorato anche durante le contrazioni” (per inciso io durante le contrazioni manco sapevo come mi chiamavo, poi quelle mi spiegano come fanno). Non ho voluto, non ho potuto, non fa differenza. Ho ascoltato me stessa e le mie esigenze. E ho smesso di pensare al dottorato, alla ricerca, al lavoro e a tutto il resto. Perchè avevo altro da fare. Mi sono liberata dalla pressione sociale del dovere dimostrare che ANCHE in gravidanza si può fare (quasi) tutto. Perchè non è vero, è una balla e mi sembra pure una fregatura. Perchè il rispetto della maternità esiste solo a parole nella vita di tutti i giorni: ho il contrassegno per lo stallo rosa (quei parcheggi riservati alle donne incinta), mai trovato libero (e non perchè occupato da “colleghe di maternità”), in fila alla cassa precedenza gestanti e disabili mai fatta passare una volta anzi mi sono presa parole quando a uno che mi chiedeva “scusi posso passare c’ho due cose” gli ho detto picche (“scusa c’ho una panza che non respiro, i piedi gonfi e mi si sta spaccando la schiena e tra mezz’ora devo essere all’asilo a prendere l’altro figlio, non ti basta?”), mai fatta sedere sui mezzi pubblici. Perchè è difficile continuare a fare tutto e essere incinta. Portare in grembo un figlio è un privilegio? Forse sì ma è anche un’immensa fatica. Per me lo è stato. Così ho fatto quello che mi sentivo e Adele è nata bella e sana per Natale. Starò a casa il più possibile con lei e suo fratello perchè se è vero che i ruoli dei genitori sono intercambiabili (vedi questo post) e siamo anche una famiglia esemplare da questo punto di vista, lei riconosce il mio odore, la mia voce e il mio battito cardiaco. Perchè era dentro di me, non dentro nessun altro. E siccome è quasi sicuramente l’ultima volta che sarò mamma ho il diritto di godermelo senza sensi di colpa. Senza dimostrare che io a due settimane dal parto mi tiravo il latte e iniziavo a lavorare o altro. Ognuna libera di fare come crede, ma non cediamo alla tentazione di credere che sia la normalità fare finta che non accada nulla o che sia poco impattante sulla vita di una donna.
Perchè ve lo racconto qui? Perchè ho da pagare dei debiti grossi come una casa. Prima dell’estate ho raccolto delle meravigliose interviste per il mio phd sull’engagement nelle community. Piero Tagliapietra, Paolo Ratto, Emanuele Quintarelli, Alessandra Farabegoli, Mafe De Baggis, Emanuela Zaccone, Luca Conti e Fabio Lalli mi hanno concesso il loro tempo e li ringrazio. Ringrazio anche tutti quelli che mi hanno detto di sì ma poi, siccome per i motivi v.sopra mi sono dovuta fermare, non sono riuscita a concretizzare. Un grazie a una persona che non riuscirò più a intervistare perchè è improvvisamente scomparsa, l’ho chiamato e mi aveva manifestato tutta la sua disponibilità, sono sicura che non potere parlare con lui sarà una grande perdita. E siccome nella ricerca sociale mi hanno insegnato che è giusto rendere ciò che si è ricevuto e perchè è anche la mia forma mentis e il principio di condivisione su cui si basa il web in cui credo, volevo fare pubblica ammenda. Per il momento non so quando riuscirò a lavorare i dati che ho raccolto, riesco a ricavarmi pochi momenti in cui mi piace ripartire un po’ con la vita di prima (che diciamocelo fare SOLO la mamma è anche bello alienante) per cui scusatemi tanto Piero, Paolo, Emanuele, Mafe, Alessandra, Emanuela, Fabio e Luca ma la promessa di tenervi aggiornati sui risultati per il momento non riesco a mantenerla. Ma tra #work e #life in questo momento ho fatto la mia scelta.

World Wide We /Mafe de Baggis (Letture)

04 Friday Oct 2013

Posted by Valeria Baudo in community, community management, community of practice, online community

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letture, mafe de baggis

Ci sono dei libri che arrivano nel momento giusto e che ti danno il fil rouge per interpretare i fenomeni che stai osservando: per me World Wide We è stato uno di questi. Questo post è un mio riassunto personale degli spunti più interessanti a uso e consumo mio e di chi ne può essere interessato-anche per non dimenticarmeli visto che il libro devo restituirlo in biblioteca perdonami Mafe se non l’ho comprato ;).
Ho capito una cosa: che mi piacciono i libri scritti da giornalisti che si occupano di web perchè hanno una penna felice e non ti ammazzano di tecnicismi. L’idea alla base del testo è quella di aiutare le aziende a progettare la presenza online, il volume è del 2010 che potrebbe volere dire preistoria per la maggior parte dei libri che trattano di socialcosi ma, essendo un libro che mi piace definire di metodologia, non è così.Ecco cosa mi sono portata a casa io da questa lettura.

Una cosa che mi ha sempre colpito è l’espressione “attivare una community” ecco cosa leggiamo a tal proposito nel testo: “attivare una community richiede più empatia che competenza, più pazienza che soldi, più umiltà che tecnologia“. Progettare lo strumento e metterlo in mano a uno che ne sa di informatica (argh!) o che ne sa di social spesso non basta. L’empatia è la chiave del successo. In alcune community che mi sono capitate non ero empatica, non ero competente, forse ero paziente e umile ma le 3 cose devono andare di pari passo. Ecco che si spiegano gli annunci che richiedono un community manager appassionato di running, motori, fashion o altro. Pensando ala mia esperienza mi viene da dire: ma se avessimo pubblicato un annuncio in cui si chiedeva un community manager appassionato di integrazione tra studenti stranieri avremmo trovato qualcuno? Beh ci sono argomenti più facili di altri, no?
La progettazione (paola chiave, spesso ignorata perchè vige ancora l’approccio alla armiamoci e partiamo) sui social media parte dalla verifica sul nostro obiettivo: è compatibile con le persone cui ci rivolgiamo? Le persone nei social sono agenti e non ricettori del messaggio come nei mass media.
Faccio mia-e lo farò a lungo- la definizione di community che viene data che riporta tutto a una dimensione di ragionevolezza e buon senso che spesso si perde: community è “un gruppo di amici che ancora non si conoscono (bene)“. Ci sono 3 concetti diversi sottesi: uno è l’appartenenza (avere qcs in comune con molte altre persone, si riferisce a macroconcetti come essere italiani, donne, mamme etc), l’altro è la rete ovvero essere collegabili a queste persone (e tutta la teoria delle reti che ne deriva) infine ci sono le community e le tribù ovvero avere un legame forte con alcuni. La community è quindi una questione di legami tra persone.
Il lavoro che va fatto quindi consiste nell’individuare le reti e attivare le community, il legame tra le persone deve preesistere, non può essere calato dall’alto; guardandola da questo punto di vista quindi esistono solo community bottom-up e non esistono community create dall’alto.
Le reti infatti non possono crescere in base al nostro progetto, ma solo quando le persone che le compongono fanno ciò che vogliono/di cui hanno bisogno in quel momento aggiungendo valore alle reti stesse. Ricordiamocelo nel momento in cui in una riunione diremo: gli utenti qui devono...pensiamo a un habitus nuovo che ci permetta di dire le persone qui vogliono!
Sulla visione delle nuove tecnologie Mafe regala di nuovo parole di buonsenso: le nuove tecnologie, dice, sono solo un modo migliore di soddisfare un bisogno dell’animale sociale ovvero quello di creare relazioni con gli altri “Internet non é un cambiamento di percorso, è un passo avanti sulla stessa traiettoria” (p.9).
In questo senso Internet è un facilitatore di processo perchè ci permette di incontrare persone non solo in base alla prossimità fisica e socio-demografica, ma in base a una comunanza di interessi.
Ho sempre cercato una tassonomia delle community ma la distinzione che qui viene fatta tra community tematiche come basate su una condivisione di contenuti e tra social network come condivisione della propria vita mi sembra importante e mi fa chiedere quale Idra abbiamo generato con le community tematiche sui social network.

Dopo averci guidato in questa introduzione teorica il libro prosegue con l’attività di pianificazione e gestione dell’ascolto. Alzi la mano chi almeno una volta è partito in quarta senza farla! (Io ho la mano alzata e il capo cosparso di cenere). Dall’ascolto deve scaturire una mappa che indichi i temi, i protagonisti e gli interessi del nostro ambito di riferimento.

Ma la parte più interessante del libro è quella che tratta dell’uso/abuso della parola community. In America la community è chiaro cosa sia, si riferisce anche a una dimensione di aggregazione sociale della vita quotidiana che da noi non ha corrispettivi. Quindi abbiamo importato un termine senza chiarirne l’ambiguità di fondo: in estrema sintesi la community è un insieme di persone che hanno qualcosa in comune tra loro, bisogna solo capire che cosa è quel qualcosa e come si legano le persone. Se le persone non si conoscono ancora tra di loro la community si definisce latente (in potenza? nostro scopo è trovare il social object che la trasformi in una community in atto). Allora il sintagma community design significa individuare una community latente e darle gli strumenti per diventare attiva creando relazioni libere e spontanee tra i membri. Il community design quindi precede logicamente il community management e il community management consiste nel mettere delle regole per evitare che qualcuno mandi in vacca il tutto. Detta così sembra facile no? Ma la mia preferita è la community inattiva il vero coitus interruptus delle community (LOL!) cioè persone che si riconoscono come simili ma che non hanno rapporti tra di loro, ma solo con il sito che è il punto di raccolta (queste community quasi onanistiche mi fanno morire dal ridere se non sapessi in tutta coscienza di avere contribuito a crearne). In questo caso è facile confondere community con utenza (i visitatori del sito, gli utenti registrati…); solo nel primo caso è presente il desiderio (conscio o inconscio) di frequentare persone affini in un luogo di incontro libero e informale. E se vi va bene da community potrete passare a Tribù che, per evolvere, ha bisogno di una massa critica ovvero dell’utenza e rinunciare al controllo sia sul messaggio che voglio fare circolare che sulla sua forma (il senso invece va gestito). Insomma bisogna accettare che i figli, ormai grandi, vadano in vacanza da soli. Parafrasando l’amico Federico direi che “la community si dà quando gli utenti vanno in vacanza da soli”

Allora le community sono anarchiche? No anzi, si possono e devono progettare ma rispettando le loro caratteristiche e peculiarità. L’errore metodologico più grosso che si può fare è partire dalla riflessione sul mix di strumenti da usare non capendo che l’esatto incipit riguarda invece la progettazione della socialità che comprende: l’analisi delle caratteristiche delle persone che vogliamo coinvolgere, i loro bisogni e desideri, le loro abitudini, l’analisi delle relazioni tra di loro e con noi. Ma progettare significa solo creare un ambiente favorevole affinché possa accadere quello che noi vogliamo, non definire un rigido percorso passo passo. La differenza sta tutta nel riconoscere e capire il mitico social object che è quello che fa la differenza tra una occupazione guerriera DEI social media e una strategia di relazione SUI social media.
Non preoccupiamoci eccessivamente del proteggere e svezzare la community che va vista come una struttura resiliente che sa assorbire gli stimoli in arrivo dall’esterno senza cambiare forma e sostanza. Allora se tutto si gioca attorno al social object che cosa è questa entità che dobbiamo cercare? Semplicemente il motivo per cui due persone iniziano a parlare tra di loro invece che con qualcun altro: la ragione per cui iniziamo a socializzare tra di noi è il social object. Mafe usa le figure di Propp per regalarci un’immagine del community manager davvero pregnante: non più eroe ovvero protagonista, nè antagonista (strategia che non paga, vedi i casi che hanno fatto scuola tipo Patrizia Pepe) ma donatore, una figura che sta dietro le quinte che sa fare avanzare la storia permettendo ai partecipanti di fare amicizia e entrare in relazione tra di loro, trovando persone affini sconosciute sino a poco prima. Nelle comunità latenti non basta esplicitare il social object ma è necessario anche specificare l’universo linguistico di riferimento creando uno script, un concept della community, il community mix ovvero progettare, partendo dal social object i contenuti e le esperienze che riescono a offrire qualcosa di diverso dalle esperienze fatte sinora che sia coerente con la nostra immagine.
Bisogna decidere quali saranno gli spazi (on-site, off-site, social search) e fare seguire un progetto tecnologico e decidere se ci si vuole rivolgere a tutti gli interessati o a un sottoinsieme di persone che già si conoscono.

A questa prima fase va fatto seguire un palinsesto di iniziative, una interfaccia che reifichi i contenuti e il linguaggio, dei pattern e degli standard di riferimento (mai perdere la consapevolezza di ciò che accade), legando tutto a degli obiettivi.

L’ultima parte del libro riguarda la misurazione dei risultati, un tema che è croce e delizia per chiunque lavori con i social media. Non dobbiamo interpretarli come un rapporto di causa-effetto ma come una finestra di opportunità non preoccupandoci troppo di digital trivia (banali conteggi) ma relazionandoli sempre agli obiettivi.

Insomma World Wide We: accattatevillo!

Di privacy e biscottti

E' entrata in vigore una normativa sui cookie che dice che ti devo dire come uso i cookie che genero da questo sito. Io non sapevo neanche di generarne prima d'ora (grazie al garante per avermi fatto riflettere su come i biscotti siano tante cose diverse da quelle che inforno per i miei figli).
Ti dico che quindi non saprei davvero cosa farmene. Se un giorno scopro che mi servono ti avviso, ok? Se non ti sta bene i cookie si possono bloccare dal browser (è facile, lo so fare anche io).
Ma siccome sono cittadina onesta e non vorrei incappare in multe ti copio-incollo qui sotto una cosa in legalese che dicono vada bene (dicono eh? che mica ci si capisce ancora tanto di questa cosa). (l'ho presa da qui http://bit.ly/1BjEmwu/)

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