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Category Archives: community management

#TwLetteratura, la mia tesi e una survey per te

15 Monday Jun 2015

Posted by Valeria Baudo in community, community management, online community, phd

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survey, twletteratura

Non sia mai che un gentiluomo neghi qualcosa a una madamigella. Fatelo anche voi con la ricerca di @valeriabaudo: http://t.co/2Uv2VNhsLK

— Fitzwilliam Darcy (@MrDarcyTw) June 13, 2015

Nothing is more polite than help a friend: so, I kindly recommend you to answer to @valeriabaudo's survey: http://t.co/kDHuiJiBFY

— Jane Austen (@JaneAustenTw) June 13, 2015

Vi bastano loro due come endorsement per la mia tesi di dottorato? 🙂

E’ online la mia indagine volta a capire il comportamento della community di #TwLetteratura.

La trovate qui e non potete fare a meno di compilarla, è il must have dell’estate 2015!

http://sondaggi2.didattica.unimib.it/index.php/126565/lang-it

Ah non sapete cosa sia #TwLetteratura? Per il momento fidatevi di me che è una cosa bellerrima (e poi vi scrivo in un altro post perchè ho scelto di analizzare proprio questa community come caso studio) e guardatevi questo video che condensa il metodo #TwLetteratura in pochi minuti.

 

 

 

Cose belle e scritte bene sulle community

26 Monday Jan 2015

Posted by Valeria Baudo in community, community management, online community

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Che Michele d’Alena le scrive bene e io me le appunto anche qui così non me le dimentico. E si cita anche un pezzo meraviglioso di @aubreymcfato sulla costruzione delle community

World Wide We /Mafe de Baggis (Letture)

04 Friday Oct 2013

Posted by Valeria Baudo in community, community management, community of practice, online community

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letture, mafe de baggis

Ci sono dei libri che arrivano nel momento giusto e che ti danno il fil rouge per interpretare i fenomeni che stai osservando: per me World Wide We è stato uno di questi. Questo post è un mio riassunto personale degli spunti più interessanti a uso e consumo mio e di chi ne può essere interessato-anche per non dimenticarmeli visto che il libro devo restituirlo in biblioteca perdonami Mafe se non l’ho comprato ;).
Ho capito una cosa: che mi piacciono i libri scritti da giornalisti che si occupano di web perchè hanno una penna felice e non ti ammazzano di tecnicismi. L’idea alla base del testo è quella di aiutare le aziende a progettare la presenza online, il volume è del 2010 che potrebbe volere dire preistoria per la maggior parte dei libri che trattano di socialcosi ma, essendo un libro che mi piace definire di metodologia, non è così.Ecco cosa mi sono portata a casa io da questa lettura.

Una cosa che mi ha sempre colpito è l’espressione “attivare una community” ecco cosa leggiamo a tal proposito nel testo: “attivare una community richiede più empatia che competenza, più pazienza che soldi, più umiltà che tecnologia“. Progettare lo strumento e metterlo in mano a uno che ne sa di informatica (argh!) o che ne sa di social spesso non basta. L’empatia è la chiave del successo. In alcune community che mi sono capitate non ero empatica, non ero competente, forse ero paziente e umile ma le 3 cose devono andare di pari passo. Ecco che si spiegano gli annunci che richiedono un community manager appassionato di running, motori, fashion o altro. Pensando ala mia esperienza mi viene da dire: ma se avessimo pubblicato un annuncio in cui si chiedeva un community manager appassionato di integrazione tra studenti stranieri avremmo trovato qualcuno? Beh ci sono argomenti più facili di altri, no?
La progettazione (paola chiave, spesso ignorata perchè vige ancora l’approccio alla armiamoci e partiamo) sui social media parte dalla verifica sul nostro obiettivo: è compatibile con le persone cui ci rivolgiamo? Le persone nei social sono agenti e non ricettori del messaggio come nei mass media.
Faccio mia-e lo farò a lungo- la definizione di community che viene data che riporta tutto a una dimensione di ragionevolezza e buon senso che spesso si perde: community è “un gruppo di amici che ancora non si conoscono (bene)“. Ci sono 3 concetti diversi sottesi: uno è l’appartenenza (avere qcs in comune con molte altre persone, si riferisce a macroconcetti come essere italiani, donne, mamme etc), l’altro è la rete ovvero essere collegabili a queste persone (e tutta la teoria delle reti che ne deriva) infine ci sono le community e le tribù ovvero avere un legame forte con alcuni. La community è quindi una questione di legami tra persone.
Il lavoro che va fatto quindi consiste nell’individuare le reti e attivare le community, il legame tra le persone deve preesistere, non può essere calato dall’alto; guardandola da questo punto di vista quindi esistono solo community bottom-up e non esistono community create dall’alto.
Le reti infatti non possono crescere in base al nostro progetto, ma solo quando le persone che le compongono fanno ciò che vogliono/di cui hanno bisogno in quel momento aggiungendo valore alle reti stesse. Ricordiamocelo nel momento in cui in una riunione diremo: gli utenti qui devono...pensiamo a un habitus nuovo che ci permetta di dire le persone qui vogliono!
Sulla visione delle nuove tecnologie Mafe regala di nuovo parole di buonsenso: le nuove tecnologie, dice, sono solo un modo migliore di soddisfare un bisogno dell’animale sociale ovvero quello di creare relazioni con gli altri “Internet non é un cambiamento di percorso, è un passo avanti sulla stessa traiettoria” (p.9).
In questo senso Internet è un facilitatore di processo perchè ci permette di incontrare persone non solo in base alla prossimità fisica e socio-demografica, ma in base a una comunanza di interessi.
Ho sempre cercato una tassonomia delle community ma la distinzione che qui viene fatta tra community tematiche come basate su una condivisione di contenuti e tra social network come condivisione della propria vita mi sembra importante e mi fa chiedere quale Idra abbiamo generato con le community tematiche sui social network.

Dopo averci guidato in questa introduzione teorica il libro prosegue con l’attività di pianificazione e gestione dell’ascolto. Alzi la mano chi almeno una volta è partito in quarta senza farla! (Io ho la mano alzata e il capo cosparso di cenere). Dall’ascolto deve scaturire una mappa che indichi i temi, i protagonisti e gli interessi del nostro ambito di riferimento.

Ma la parte più interessante del libro è quella che tratta dell’uso/abuso della parola community. In America la community è chiaro cosa sia, si riferisce anche a una dimensione di aggregazione sociale della vita quotidiana che da noi non ha corrispettivi. Quindi abbiamo importato un termine senza chiarirne l’ambiguità di fondo: in estrema sintesi la community è un insieme di persone che hanno qualcosa in comune tra loro, bisogna solo capire che cosa è quel qualcosa e come si legano le persone. Se le persone non si conoscono ancora tra di loro la community si definisce latente (in potenza? nostro scopo è trovare il social object che la trasformi in una community in atto). Allora il sintagma community design significa individuare una community latente e darle gli strumenti per diventare attiva creando relazioni libere e spontanee tra i membri. Il community design quindi precede logicamente il community management e il community management consiste nel mettere delle regole per evitare che qualcuno mandi in vacca il tutto. Detta così sembra facile no? Ma la mia preferita è la community inattiva il vero coitus interruptus delle community (LOL!) cioè persone che si riconoscono come simili ma che non hanno rapporti tra di loro, ma solo con il sito che è il punto di raccolta (queste community quasi onanistiche mi fanno morire dal ridere se non sapessi in tutta coscienza di avere contribuito a crearne). In questo caso è facile confondere community con utenza (i visitatori del sito, gli utenti registrati…); solo nel primo caso è presente il desiderio (conscio o inconscio) di frequentare persone affini in un luogo di incontro libero e informale. E se vi va bene da community potrete passare a Tribù che, per evolvere, ha bisogno di una massa critica ovvero dell’utenza e rinunciare al controllo sia sul messaggio che voglio fare circolare che sulla sua forma (il senso invece va gestito). Insomma bisogna accettare che i figli, ormai grandi, vadano in vacanza da soli. Parafrasando l’amico Federico direi che “la community si dà quando gli utenti vanno in vacanza da soli”

Allora le community sono anarchiche? No anzi, si possono e devono progettare ma rispettando le loro caratteristiche e peculiarità. L’errore metodologico più grosso che si può fare è partire dalla riflessione sul mix di strumenti da usare non capendo che l’esatto incipit riguarda invece la progettazione della socialità che comprende: l’analisi delle caratteristiche delle persone che vogliamo coinvolgere, i loro bisogni e desideri, le loro abitudini, l’analisi delle relazioni tra di loro e con noi. Ma progettare significa solo creare un ambiente favorevole affinché possa accadere quello che noi vogliamo, non definire un rigido percorso passo passo. La differenza sta tutta nel riconoscere e capire il mitico social object che è quello che fa la differenza tra una occupazione guerriera DEI social media e una strategia di relazione SUI social media.
Non preoccupiamoci eccessivamente del proteggere e svezzare la community che va vista come una struttura resiliente che sa assorbire gli stimoli in arrivo dall’esterno senza cambiare forma e sostanza. Allora se tutto si gioca attorno al social object che cosa è questa entità che dobbiamo cercare? Semplicemente il motivo per cui due persone iniziano a parlare tra di loro invece che con qualcun altro: la ragione per cui iniziamo a socializzare tra di noi è il social object. Mafe usa le figure di Propp per regalarci un’immagine del community manager davvero pregnante: non più eroe ovvero protagonista, nè antagonista (strategia che non paga, vedi i casi che hanno fatto scuola tipo Patrizia Pepe) ma donatore, una figura che sta dietro le quinte che sa fare avanzare la storia permettendo ai partecipanti di fare amicizia e entrare in relazione tra di loro, trovando persone affini sconosciute sino a poco prima. Nelle comunità latenti non basta esplicitare il social object ma è necessario anche specificare l’universo linguistico di riferimento creando uno script, un concept della community, il community mix ovvero progettare, partendo dal social object i contenuti e le esperienze che riescono a offrire qualcosa di diverso dalle esperienze fatte sinora che sia coerente con la nostra immagine.
Bisogna decidere quali saranno gli spazi (on-site, off-site, social search) e fare seguire un progetto tecnologico e decidere se ci si vuole rivolgere a tutti gli interessati o a un sottoinsieme di persone che già si conoscono.

A questa prima fase va fatto seguire un palinsesto di iniziative, una interfaccia che reifichi i contenuti e il linguaggio, dei pattern e degli standard di riferimento (mai perdere la consapevolezza di ciò che accade), legando tutto a degli obiettivi.

L’ultima parte del libro riguarda la misurazione dei risultati, un tema che è croce e delizia per chiunque lavori con i social media. Non dobbiamo interpretarli come un rapporto di causa-effetto ma come una finestra di opportunità non preoccupandoci troppo di digital trivia (banali conteggi) ma relazionandoli sempre agli obiettivi.

Insomma World Wide We: accattatevillo!

Riflettendo sull’engagement

17 Saturday Nov 2012

Posted by Valeria Baudo in community management, community of practice

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engagement

Sto riflettendo in questi giorni sull’engagement. Il punto di vista che voglio assumere è quello del community manager che si trova a dovere creare e fare crescere delle comunità di pratica/di scopo(?) intorno a temi di alto interesse ma di basso impatto (sì sto descrivendo il mio lavoro).

L’ipotesi alla base è che l’engagement che non riesco ancora a definire compiutamente ma che considero diverso dalla online participation, sia stimolabile e misurabile. Ne deriva un percorso di ricerca che si propone di:

  • misurare la risposta della community a uno stimolo (esistono contenuti più “ingaggianti” di altri?)
  • fornire delle misurazioni del successo che permettano di dire: questa community è andata bene/male (e se possibile perchè) considerando che non ho degli obiettivi di business in senso stretto.

I grandi dubbi che non riesco a risolvere:

  • come definisco l’engagement? Per ora mi piace questa definizione (thks to Debra Askanase @askdebra)

online commitment shown from fans within social media spaces by interacting with content

  • l’engagement è monodimensionale o multidimensionale?

Ho messo quello cui sono arrivata in questa mappa qui sotto (puro brainstorming)

I social media non li ordina il dottore

16 Tuesday Oct 2012

Posted by Valeria Baudo in community management, e-collaboration, social media, Tips and tricks

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AIB, facebook

Me lo chiedo sempre più spesso di fronte a tante pagine: ma perché aprire una pagina su Facebook se neanche voi avete ben chiaro cosa ci volete fare?
Se i social media non te li ordina il dottore allora perché partire con il piede sbagliato? Se non sai neanche tu che obiettivo ti dai e che risorse hai perché farlo?

Volevo proporvi la mia analisi di un caso che mi sta molto a cuore: la pagina Facebook dell’Associazione Italiana Biblioteche (AIB). Per chi non lo sapesse le biblioteche sono state la mia prima attività professionale e il campo in cui ho condotto i miei studi sino a un annetto fa, anche l’analisi del mio network Facebook fatta con Gephi per il corso di Social network analysis rivela che il core della mia rete ruota attorno alle biblioteche. A marzo, durante un intervento, ho sostenuto la necessità di aprire una pagina Facebook dei bibliotecari italiani come luogo di condivisione, scambio e collaborazione per la crescita della professione e la presa di coscienza della sua specificità anche tra gli operatori stessi. Questa pagina ora c’è (ovviamente non perché l’ho chiesta io). Ma non ne sono per niente soddisfatta.

Premesso che il presidente dell’AIB è un amico e una persona che stimo, così come le persone che ruotano attorno alle presenze social dell’AIB (e che tali spero rimangano anche dopo questo post), affermo che:

la pagina Facebook dell’AIB è una cattiva pratica da non imitare

E adesso vi dico perchè IMHO (e tralascio l’account Twitter).

Non emerge assolutamente un’idea chiara di che storia si voglia raccontare, come mi ha detto una brava community manager, non si sente l’anima. Non si può popolare la pagina solo con automatismi di pubblicazione, la stragrande maggioranza dei post riporta la dicitura “tramite Twitterfeed”. Questo significa che la pagina viene riempita automaticamente pescando dei feed da un’altra risorsa. Orbene, perché dovrei mettere il mi piace se posso sottoscrivere un feed rss che mi dà le stesse informazioni?
Seconda cosa (un po’ più fine) pubblicare con automatismi diminuisce l’engagement (altrimenti hootsuite sostituirebbe i community manager) e non ti permette di gestire il migliore momento di pubblicazione. Data la velocità dello streaming informativo su Facebook se vuoi fare arrivare la notizia è fondamentale darla nel momento giusto.

Responso: Bocciati in content curation

Chi si occupa di social sa che l’avere dei fan vivi e attivi (quello che va sotto il cappello di engagement) è lo scopo primario di una pagina. Facebook non è la tua vetrina (non lo era neanche il sito, figurati un social!) ma un posto dove si conversa e il valore è nel dialogo.
La pagina AIB parte con un vantaggio fortissimo, l’avere una comunità professionale di riferimento ben definita che nei confronti della propria associazione professionale ha un vissuto positivo ed è disposta a mettere mi piace “sulla fiducia”. Il problema non è quindi far mettere mi piace, i numeri dello screenshot qui sotto, dopo meno di un mese dall’apertura dimostrano che la pagina ha una fanbase discreta e che il buzz c’è stato, ma la conversazione è morta. Perchè?(ah, per inciso l’effetto novità ormai è bruciato e quindi il buzz spontaneo che non è stato sfruttato difficilmente sarà riproducibile)

Sicuramente i contenuti non stimolano la conversazione,  non viene voglia di parlare perché non si sente “calore umano” dentro. Cavolate? Non credo. Questi accorgimenti fanno la differenza tra pagine che funzionano e generano conversazioni e pagine che si accaparrano dei mi piace.
All’utente si risponde SEMPRE. Basta un mi piace a una persona che ha speso del tempo a fare un commento per far sentire che si è stati considerati, se scrivo qualcosa e non ho cenno dai gestori la prossima volta vado a scrivere da altre parti.

Errore marchiano: mancano le immagini nella maggioranza dei post. Sono la base su cui si costruisce l’engagement (ma su questo torneremo dopo). Ah l’immagine dello screenshot qui sopra è tagliata, non tutte le dimensioni di immagine vanno bene per Facebook (ma questa è una piccolezza tutto sommato)

Responso: bocciati in engagement

La nuova impostazione di Facebook, il diario, è stato un passo importante perché lo ha caratterizzato nettamente sul versante storytelling. Si può usare questa modalità per raccontare la storia della propria istituzione attraverso le tappe salienti e su questo mi sembra che come concetto ci siamo. Non emerge però la storia di questa pagina: cosa vuole essere? Uno spazio per discutere tra bibliotecari? Un modo per farsi conoscere dai non utenti? Con quali strategie? Insomma: che cosa vogliamo comunicare? Questo è l’aspetto che maggiormente manca e che la rende una pagina “morta”.

Mancano poi le immagini. Un esempio lampante. Pochissimi giorni fa si è svolto il primo Bibliopride italiano, la giornata dell’orgoglio bibliotecario che ha avuto copertura mediatica abbastanza diffusa. Benissimo, nella pagina Facebook dell’AIB non c’è una mezza foto dell’evento (o meglio degli eventi). Inoltre nei giorni precedenti la pagina, invece di creare l’attesa non ha fatto altro che pubblicare contenuti automatici. Decisamente un errore. Che ormai non si rimedia. La copertura sui social di questo evento era fondamentale: non c’è stata. Attenzione: l’evento ha avuto buona copertura su Twitter #bibliopride.

Facebook fa storytelling per immagini. Mi piacerebbe che la storia delle biblioteche non fosse quello che ti insegnano all’università (roba così per intenderci) ma la storia di chi fa questo mestiere, vorrei vedere i dietro le quinte perchè, cit. Gentilini, “le biblioteche sono sì piene di libri, ma è solo un caso”.

Responso: bocciati in storytelling (e questo a dei bibliotecari brucia)

Questi erano i miei 2 cent alla questione. Nessuno nasce imparato, forza che c’è tempo per correggere il tiro. Per il momento quello che mi sento di dire è: bibliotecari cari se cercate un modello di pagina FB da far diventare standard de facto guardate altrove (ad esempio qui)

Un ultimo screenshot con alcune considerazioni finali sul perché ci sia bisogno di un modello. Guardate la conversazione che segue e giocate a individuare gli errori. Quali sono in termini di community management (e di regole di Facebook più in generale?)

Vita da dottorando: passiamo all’anno 2 (si spera)

16 Sunday Sep 2012

Posted by Valeria Baudo in community management, phd

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Ma prima dell’anno 2 ci aspettano le forche caudine. Ecco che prodotti intellettuali dovrò difendere domani

 

Community management: alcune mappe concettuali

06 Thursday Sep 2012

Posted by Valeria Baudo in community management, phd

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Sto preparando un lavoretto per il passaggio al secondo anno di dottorato dall’ambizioso titolo “Design pattern per il community management” (il titolo non è mio, ma mi è stato suggerito da uno che ne sa a vagonate sui social-cosi). Si tratta di 4 interviste a community manager (lo so che 4 sono poche, ma è solo un esercizio ve l’ho detto) su alcuni temi sui quali mi sono chiesta: ma cosa farebbe un mio collega al mio posto?

Il lavoro è in fase di revisione, intanto anticipo le mappe concettuali, da me impropriamente chiamate mappe topiche in prima battuta (grazie @salvassa per la correzione). Per ingrandire le mappe cliccarci sopra, le mappe sono in modalità wikimap per cui editabili.

I punti su cui si è concentrato il mio interesse sono stati: la content creation  e le strategie di engagement

Content creation and curation

Content creation and curation

Il crisis management

crisis management

crisis management

La valutazione dell’efficacia (KPI per il community management)

Valutazione dell'efficacia

Evaluation

KPI

Community management KPI

Ogni commento è benvenuto.

Grazie di cuore alle 4 persone che hanno dedicato un po’ del loro tempo a chiacchierare con me permettendomi la realizzazione di questo lavoro.

Facebook per community manager: le ultime novità

30 Saturday Jun 2012

Posted by Valeria Baudo in community management

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facebook

Sto imparando tantissimo da un neonato gruppo Facebook di community managers italiani e soprattutto dal sempre sul pezzo Julius Design.
Grazie a loro (e soprattutto a questo post) sono rimasta aggiornata sulle ultime novità che il buon Mark spara fuori a getto continuo. Ecco le ultime novità che potresti esserti perso e che ti servono se fai il community manager o se, banalmente, gestisci la pagina Facebook della gelateria di famiglia o della squadra di calcio dell’oratorio (e se per queste cose hai una pagina invece del profilo leggi qui).

  1. da quando Allin1social è diventato a pagamento stavo cercando un’alternativa (lo so che c’è HootSuite ma datemi tempo di studiarlo) e adesso Facebook ha implementato la possibilità di programmare i post. Ah si possono programmare post anche nel passato: utile in caso di necessità di avere un alibi 🙂
  2. Cosa un po’ più tecnica: si può scegliere tra i tanti amministratori della pagine i ruoli da assegnare a ognuno di loro secondo questi diritti. Lo si fa da Modifica pagina > Ruoli
  3. Altra funzione utile il post che rimane in alto (e sulla velocità con cui lo streaming scorre abbiamo riflettuto qui). Farlo è semplicissimo, basta attivare la funzione modifica>mostra sempre in alto (si riconosce un post di questo tipo per il segnalibro giallo)
  4. Fermare il turpiloquio oggi è più semplice grazie alla lista di termini in moderazione. Modifica pagina>gestisci autorizzazioni > lista di blocco
  5. Sono apparse anche delle nuove metriche: quante persone hanno visto il post: una sorta di open rate. Uno strumento importante per definire la linea editoriale e scegliere i contenuti di successo. Insomma da quando si è quotata in Borsa Facebook non sta ferma un attimo.

Facebook: edgerank e promoted posts

29 Friday Jun 2012

Posted by Valeria Baudo in community management

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edgerank, facebook

Source: http://www.fanpagetoolkit.com

Mentre cercavo di capirne di più sulla questione dei promoted posts sulle pagine di Facebook mi sono imbattuta in un ottimo articolo che mi ha spinto a portare l’asticella un po’ più in sù, fino all’algoritmo di Facebook: l’edgerank.
Se del pagerank sappiamo il possibile, dell’edgerank non sapevo nulla e mi sono letta questo. Ecco cosa ho capito.

L’edgerank regola il flusso informativo, lo streaming di feed generati dalle azioni degli utenti nostri amici o delle pagine su cui abbiamo cliccato il mi piace che è la prima cosa  che vediamo quando apriamo facebook. Ogni azione di queste genera un feed che nel facebook language si chiama, appunto, edge.
Il modo per calcolarlo è basato sulla combinazione di 3 elementi fondamentali:

  1. affinity: valuta il rapporto tra l’utente e la persona/pagina vedendo la quantità di  interazioni che si hanno. Se, ad esempio, clicco sempre mi piace ai post di Ikea allora mi verrà proposto più facilmente Ikea nello streaming. Tra gli amici poi valgono i gradi di separazione e (penso) anche quella furbata di farci indicare chi sono i nostri figli, fratelli, mariti etc. Insomma un indicatore eminentemente quantitativo
  2. weight: è abbastanza chiaro dal nome che vuole applicare una correzione all’indicatore quantitativo di affinity e si pone come indicatore qualitativo. Infatti valuta diversamente (applicando, appunto, un peso) l’azione che si compie. Se un mi piace non si nega a nessuno, certo ha un valore diverso da un commento a un post o una pubblicazione di un contenuto su una bacheca altrui.
  3. time decay:  valuta la componente tempo ovvero la recentezza del post o del contenuto: newer=upper spingendo più in sù le cose più nuove e abituandoci a quella visualizzazione a scorrimento di liste verticali così tipica del 2.0. Ma c’è qualcosa di più: per correggere questo criterio (ve ne sarete accorti anche voi guardando come tra i più recenti contenuti che in termini di Facebook erano vecchiotti, magari del giorno prima) è stato introdotto il PTAT (people talking about that). In questo modo i contenuti che hanno generato dinamiche conversazionali o di condivisione hanno una vita più lunga.

Facebook è il regno del panta rei in due sensi: la morte dei post e delle azioni in un tempo brevissimo e la necessità, per le persone che lo usano come strumento di lavoro di stare sempre al passo con gli aggiornamenti che in questo periodo sono frenetici e mi sembrano essere sempre più orientati al business (non dimentichiamo che Facebook adesso è quotata in Borsa).A tutto questo sono arrivata interessandomi alla nuova funzionalità promoted posts ovvero la possibilità, dietro pagamento, di far fare up a un vostro contenuto, scavallando quelli free.  Se ne è scritto e parlato molto, tra cui qui . Ma non è l’unica novità di Facebook, sulle altre vi aggiorno in seguito

Quello che mi porto a casa da questa riflessione però è un sapore amaro: Edgerank è studiato per farti vedere solo quello che é di potenziale interesse per te: un compromesso tra l’information overload e la serendipity che però a me non piace, anzi mi inquieta un po’ e mi ricorda quel fantastico talk sui filter bubble. Senza fare dietrologie: ma abbiamo lasciato scegliere a macchine animate da spirito commerciale quello che vogliamo leggere? Il nuovo Torquemada è Google? E l’imprimatur ce lo dà Google?

Animazione di comunità virtuali

17 Thursday May 2012

Posted by Valeria Baudo in community management, community of practice, speech

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indigeni digitali, metidmatch

Ve ne avevo parlato qui e adesso è arrivato il momento di formalizzarla e presentarla. Oggi ho presentato il risultato del mio lavoro  al METIDMATCH e questo è ciò che ne è uscito

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Di privacy e biscottti

E' entrata in vigore una normativa sui cookie che dice che ti devo dire come uso i cookie che genero da questo sito. Io non sapevo neanche di generarne prima d'ora (grazie al garante per avermi fatto riflettere su come i biscotti siano tante cose diverse da quelle che inforno per i miei figli).
Ti dico che quindi non saprei davvero cosa farmene. Se un giorno scopro che mi servono ti avviso, ok? Se non ti sta bene i cookie si possono bloccare dal browser (è facile, lo so fare anche io).
Ma siccome sono cittadina onesta e non vorrei incappare in multe ti copio-incollo qui sotto una cosa in legalese che dicono vada bene (dicono eh? che mica ci si capisce ancora tanto di questa cosa). (l'ho presa da qui http://bit.ly/1BjEmwu/)

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